La rivoluzione alfieriana (1947)

Capitolo conclusivo di Walter Binni, Preromanticismo italiano, Napoli, ESI; poi ripreso nell’appendice di Studi alfieriani, II, 1995.

La rivoluzione alfieriana

Mentre i Bertola e i Pindemonte seguitano a costruire i loro esili rabeschi, le loro eleganti composizioni di grazia fra tenera, lineare e sentimentale, e un piglio deciso, una soluzione poetica risolutamente nuova manca a quelle compromesse personalità, sull’eco della versione cesarottiana dell’Ossian e con violenza rivoluzionaria risuonano delle nuove parole poetiche sorrette da poetica adeguata e coerente.

La personalità dell’Alfieri è già una personalità romantica, tutta tesa com’è da un potente senso di rivolta titanica contro il limite[1]. Posizione nuclearmente romantica (già il Croce lo collocò fra i protoromantici) che acquista la sua vera luce quando si colloca nella storia dell’Europa romantica, della rivolta all’ottimismo settecentesco, all’educata poetica della sensiblerie e del buon gusto, all’astratto valore illuministico.

Tutto ciò che negli altri preromantici italiani era accenno, intuizione dominata da una sintesi ancora illuministica, è ormai nell’Alfieri la genuina parte di un completo atteggiamento: atteggiamento di rottura, di ribellione non sempre svolto, appunto perché dotato dell’impeto e della generosa genericità di una rivolta. Certo, come abbiamo visto nel corso di questo studio, lentamente si erano accumulati gli spunti di una nuova sensibilità, di una nuova poetica, ma nell’Alfieri quei fuochi si fondono come per accensione dal centro di uno spirito romantico, privo delle remore entro cui abbiamo visto dibattersi o conciliarsi la maggior parte dei preromantici italiani.

L’Alfieri si presenta nella letteratura italiana (e in quella europea in cui già alcuni critici[2] lo hanno collocato avvicinandolo agli Stürmer und Dränger) con il suo nuovo piglio deciso, quasi torbido, ricco di presentimenti, ad aprire la storia di una poesia che vuole adeguare una intera vita sentimentale non descrittivamente, pur nei saldi limiti di costruzione che mai mancò ai romantici italiani.

Una giustificazione spiegata coerentemente di quel primo atteggiamento di slancio, di vocazione a valori infiniti, non gli era concessa dall’inadeguatezza che in lui esiste fra la sua cultura, le sue capacità sistematiche e la sua forza nucleare, la sua novità, che consiste nel portare tutta l’anima in un punto, nel vivere uno scatto intenso, non ragionandosi e descrivendosi nella sua meta, come qualche volta avvenne nell’ultimo Alfieri, piú freddo e arzigogolato, costretto a seguire un procedimento non suo e che non avrebbe avuto la forza di completamente rinnovare.

L’intensità alfieriana non si distende in una meditazione, o in considerazione storica come nel Foscolo; resta capacità piú di ossessione, di ritmo potente che non di svolgimento continuo e dedotto. La stessa cultura italiana in movimento poneva l’Alfieri ancora nel passaggio fra illuminismo e romanticismo. E proprio in questo passaggio l’Alfieri ha una importanza decisiva con il suo apprezzamento dei valori piú elementari e sanguigni in contrapposizione con la socievolezza illuministica, paurosa di quanto non fosse passato attraverso scienza accademica, attraverso approvazioni ragionevoli.

Per vedere chiaramente come l’Alfieri porti intuizioni di un nuovo senso vitale e come d’altra parte inevitabilmente anche in lui riaffiorino a volte motivi illuministici (che furono forti specie nella sua prima cultura francese), basterà ricordare che mentre nella Satira V aveva violentemente protestato contro la leggerezza con cui si giustificavano i delitti passionali in Italia, nelle pagine di Del Principe e delle lettere esalta quegli «enormi e sublimi delitti» che a lui sembravano prova romanticissima della naturale forza degli italiani, della loro capacità istintiva a vivere di passioni e quindi di grandi virtú.

Quegli «enormi e sublimi delitti» valgono tutto un trattato sull’importanza del sentimento nei confronti della ragione e dicono che l’Alfieri avviava una valutazione nuova della vita, dell’uomo, della società, della poesia; anche se teoricamente non andò piú in là di quelle vigorose intuizioni. Aveva un nuovo valore dell’uomo piú nella sua capacità intuitiva e ancora indeterminata che nei risultati di una educazione in virtú di una morale di società. “Uomo”, per lui, indicava una forza di vita, una potenza sanguigna di bene e di male. E mentre il Parini pensava illuministicamente a un cittadino equilibrato, fornito di virtú ragionevole, di interesse alla vita della civitas, l’Alfieri passava oltre e cercava l’uomo, la radice di ogni bene e di ogni male, che diventava un male buono purché intensamente energico.

Uomini concreti, non umanità astratta. Ecco cosí che di fronte alla tendenza illuministica di universalismo, di cosmopolitismo, prende nascita nell’Alfieri quel gusto di caratterizzazione delle varie nazionalità (perfino nel volto) e quel sentimento razionale importante piú che nei suoi svolgimenti, nella prima affermazione, nel sentimento quasi religioso del concreto. Questo senso del concreto si complicava naturalmente in lui con la sua formazione sensistica, che da una parte lo confermava nella diffidenza verso ogni vago spiritualismo e dall’altra lo induceva per contrasto a ribellarsi alla schiavitú dei sensi come limite della libertà umana: donde quel moto pessimistico che nasce romanticamente entro le linee del sensismo.

Certo al “sentire” filosofico e condillachiano l’Alfieri veniva a sostituire un “sentire” nuovo, il sentire del “cuore”, dell’entusiasmo che sempre piú diventava in lui la misura di ogni azione e di ogni idea. Sí che scrivendo ad una signora senese il cui amante era morto, dice quasi di credere all’immortalità dell’anima «perché alcune opinioni son piú utili e soddisfano il cuor ben fatto, che altre. [...] Viva dunque l’ignoranza e la poesia, per quanto esse possono stare insieme: imaginiamo, e crediamo l’imaginato per vero: l’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio, ché Dio chiamo io l’uomo vivissimamente sentente; e cani chiamo, o francesi, che è lo stesso, i gelati filosofisti»[3]. Opposizione alla gelida filosofia, sviluppo di sensismo in sentimentalità, rivolta allo spirito pacato e lucido dell’illuminismo che si ritrovava potentemente nell’espressione dei suoi affetti di amore o di amicizia: «Mi si arricciano i capegli sempre ch’io penso al pericolo che si corre quando si vive in altri come facciam noi» (al Bianchi nell’86[4]), e che sboccano spesso in espressioni tese di tristezza pessimistica: «Mi saluti la Teresina caramente; e beato lei che ogni giorno può pur vederla, e contarle i suoi guai, e sentire i suoi. Sola dolcezza nella vita: il resto è morir continuo» (nell’84 al Bianchi[5]). E c’era in lui anche un motivo di malinconia profonda e nativa: non la malinconia, ninfa gentile, del Pindemonte, ma un motivo cupo, la riprova della sua impegnativa serietà, tesa da quell’aria di tempesta che vive in ogni suo segno (senza trasformare l’Alfieri perciò in una maschera convulsa) ed è pronta a scoppiare in certi inizi tragici e dolenti delle Rime come per una intensificazione di sentimento. Il motivo della malinconia e della solitudine chiama poi l’Alfieri al paragone dell’infinito che rimane la misura piú comune ai romantici; anche se estremamente equivoca in termini di immaginazione paesistica. Ma appunto perciò, dall’equivoco con cui lo spirito romantico aspira all’infinito e lo trova ancora in una estensione senza limiti immaginabili, nasce la poesia di un anelito spirituale e sensibile insieme: vista di cieli immensi, di mari sconfinati o, con il massimo sforzo leopardiano, vista di un limite che per contrasto crea l’abisso di una illimitata vastità. Senso dell’infinito nel paesaggio che si accorda intimamente e coerentemente con la passione della rivolta al limite delle cose.

Quell’ermo lido, e il gran fragor ne empiva

il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)

d’alta malinconia; [...][6]

E la sua poetica nasce (anche se non cronologicamente) su questo accordo essenziale, su questo senso della poesia come lotta di liberazione. Si pensi del resto all’origine della sua passione politica. «Gli uomini tutti per lo piú e maggiormente i piú schiavi (come siamo noi) peccano tutti nel poco sentire»[7]. Piú difficilmente uno scrittore illuministico avrebbe cercato simile giustificazione per una lotta contro la tirannide, come nessuna teoria dello Stato settecentesco avrebbe posto come fine ultimo se non uno sviluppo equilibrato delle virtú e della felicità razionalmente intesa. La lotta politica diventa il simbolo di una lotta e di una liberazione piú profonde, diremmo religiose, cui l’Alfieri esplicitamente non arrivò. E cosí il valore vero della passione tirannicida è ben documentato come liberazione dai limiti ostili della vita nel sonetto 18, in cui l’idea della morte e del tiranno sembrano fondersi di fronte al titanico slancio del poeta in rivolta sdegnosa contro la realtà ben piú che contro la tirannide politica.

Bieca, o Morte, minacci? E in atto orrenda,

l’adunca falce a me brandisci innante?

Vibrala, su: me non vedrai tremante

pregarti mai, che il gran colpo sospenda.

Nascer sí, nascer chiamo aspra vicenda,

non già il morire, ond’io d’angosce tante

scevro rimango; [...][8]

È ben chiaro che, in questo ritmo scandito e appassionato, la passione politica è velo, è inconscio simbolo di una passione piú profonda, di un’ansia piú grave ed è appunto perciò che essa assume un tono cosí fremente, cosí schiettamente romantico[9] come ritmo di un dramma della persona che si ribella alla situazione umana. Certo le sue intenzioni vivono entro una linea di pensiero e la sua indagine sui rapporti individuo-stato può essere considerata interessante per la storia del pensiero politico, ma il vero vigore alfieriano vive nel romantico amore del concreto sia individuale sia nazionale entro un’affermazione tutta personale di acerba novità. Un vigore che non tende a tradursi in azione pratica o sistematica, ma che con la stessa irruenza con cui farebbe ciò, si precipita verso una rappresentazione poetica del proprio atteggiamento di lotte.

Questa rappresentazione poetica si motiva ben diversamente che non le espressioni letterarie di un Bertola, di un Pindemonte o magari di un Parini. Nell’Alfieri, senza volere affatto ridurlo ad uno zingaro dell’ispirazione, e tenendo anzi il massimo conto della tenacia artistica con cui egli volle fissare i suoi fantasmi e con cui si creò una disciplina e si inserí nella tradizione letteraria, c’è una nascita della poesia tutta sentimentale ed esplosiva. Si pensi ai Giornali, alla prima parte della Vita fino al 1775 (formazione della persona come vocazione alla poesia e viceversa), e si avverta quanto tipicamente romantico sia questo nascere del poeta attraverso uno sviluppo di sentimenti, questo ritrovare le origini della poesia, dell’ispirazione in una eccezionale emotività, in una magnanima appassionatezza. Ogni lettura di poesia, ogni audizione di musica, sono stimoli di sentimenti qualificati come terribili, di «avidità e furore», ed ogni affetto appassionato è d’altronde interpretato come indizio sicuro di animo poetico. Ed ecco cosí le «orribili malinconie», i pianti senza ragione che, durante i viaggi della Vita, l’Alfieri interpreta appunto come ansia sentimentale naturaliter poetica, preludio e indizio di poesia. In quell’opera si profila un compiuto ritratto di poeta romantico con la sua Erlebnis di sviluppo di sentimento malinconico in poesia, con il suo nutrimento di affetti appassionati, di avventure su sfondi di tempestosa grandiosità. E se vogliamo renderci conto piú strettamente della sua poetica, ci troviamo di fronte non ad una formulazione culturale ma ad intuizioni sentimentali decise e coerenti, valevoli per una piú generale descrizione di poetica di protesta antilluministica.

Il Parini, perfettamente aderente al suo tempo e alla cultura illuministica, aveva trovato uno sviluppo perfetto tra la poetica del suo tempo e la sua, ma l’Alfieri con una cultura inadeguata non poteva che spingersi fuori del vecchio equilibrio senza preoccuparsi di un accordo impossibile con la vecchia cultura e della creazione di una nuova. Sono inevitabili quindi riprese incerte delle piú trite idee didascaliche («fruttiferi diletti» dirà della poesia in un sonetto del ’95[10]) ma subito superate e travolte dal senso nuovo di uno stimolo romantico alla radice dell’uomo, di un entusiasmo indiscriminato. Meno sottile e articolato di un Bettinelli, piú rude e contenutistico, l’Alfieri, anche se ricorre a frasi e modi tipici della poetica settecentesca, è fuori da quella certa mediocrità in cui un Bettinelli aveva sapientemente alternato il “sublime” al “buon gusto” e all’“estro”, e nella ripresa dell’utile dulci[11] l’affermazione del vigore della poesia come figlia della libertà e «del forte sentir piú forte figlia»[12] significa una ben diversa posizione di poetica. Posizione di eteronomia romantica nel suo piú generoso riferimento alla nascita della poesia da un sincero slancio dell’animo, libero da ogni bassezza, da ogni limite interno, da ogni compromesso ideale e morale. La poesia non è piú, come per molti illuministi, volgarizzazione elegante, illustrazione di utili e ragionevoli verità, e quindi neppure ricercato e calligrafico ornatus, ma è l’espressione di un sentimento spontaneo e personale e il suo compito educativo e di catarsi non è estrinseco, ma intimo alle ragioni stesse della poesia: liberazione fondamentale della condizione dell’uomo, il sentimento, e sua vita sempre piú intensa. Non classico rasserenamento del «forte sentire» e tanto meno placida stilizzazione, ma «piú forte figlia», piú forte espressione; non contemplativa visione, ma intensificazione di vita sentimentale: «Ardenti armonïosi detti»: armoniosi, ma soprattutto ardenti, ricchi di un sentimento non placato.

Sí che, con naturale esagerazione e non tenendo conto, per gusto di evidenza di una linea di tensione, della calma artistica che non poteva mancare nell’Alfieri, si potrebbe dire che la poetica alfieriana sta al polo opposto di quella espressa dal petrarchesco «Perché cantando il duol si disacerba» (XXIII, v. 4).

È dunque al di là degli entusiasmi preromantici, ma certo su quella linea, che l’Alfieri arrivò a trovare romanticamente la radice della poesia in quell’«impulso naturale» in cui, piú che un illusorio compenso di pratica inattuata, si realizza la volontà integrale della sua poetica.

Tutto il trattato Del Principe e delle lettere è, pur nelle sue manchevolezze di pensiero[13], la fremente esposizione di un concetto di letteratura e poesia, energicamente contrapposto a quello illuministico.

Anzitutto è da notare l’individuazione della letteratura nel «letterato», secondo una tendenza antiastratta che coincide con la lotta contro ogni convenzione, contro i limiti ammessi dal letterato settecentesco, cortigiano e veneratore della raison in ogni sua manifestazione. Donde una distinzione fra letterato romantico e libertà da una parte e letterato tradizionale e cortigianeria dall’altra («L’indole predominante nelle opere d’ingegno nate nel principato, dovrà dunque necessariamente essere assai piú la eleganza del dire, che non la sublimità e forza del pensare»[14]) e contrapposizione, sia pure in termini equivoci, fra il letterato elegante e calligrafico e il poeta ricco di una forza sentimentale, di quel sublime che abbiamo visto al vertice dei desideri preromantici e che l’Alfieri identifica non con una categoria astratta, ma con un fuoco ardente dell’anima dello scrittore. La distinzione romantica del genio dalla turba dei mortali si affaccia veemente nel giudizio sui letterati che non hanno una parola nuova e libera da dire. «Gli uomini grandi davvero, in ogni età e contrada rarissimi nascono, ma quei mediocri, che con indefesso studio acquistatasi una certa felicità di stile, sono giunti a farsi leggere ed ascoltare, abbondano oggi giorno in ogni colto paese d’Europa; e sono questi la base della letteratura cortigiana»[15]. Con la presenza segreta del Machiavelli, il nuovo mito romantico del poeta-genio acquista un sapore meno esclusivamente letterario. Il letterato vero è un uomo al di sopra del volgo e della comune civilizzazione e la sua virtú attiva solo dalle circostanze è deviata verso l’espressione poetica, portandovi un impeto eroico che supera il concetto di letteratura come decorazione. Il genio coincide con tutte le grandi anime di tutti i tempi (rovesciamento dell’idea settecentesca di progresso); scrittori-attori gli eroi, i martiri, i capi-setta, i santi[16], e scrittori-letterati quegli uomini che agiscono con la penna senza intenti cortigiani. E con questa unificazione si accentua il carattere eteronomo della base della poetica alfieriana, ed è proprio con questa rude rivolta al poeta letterato del Settecento, alla sua educata socievolezza, che l’Alfieri afferma la nuova poetica sentimentale e personale, a cui i vari Baretti e Bettinelli solo a momenti e con forti remore si avvicinavano. Il sine qua non del vero poeta è dunque non una qualità di prezioso versificatore, di decoratore magari di motivi eroici e virili, ma quell’impeto originale e personale che il Bettinelli aveva chiamato e limitato come «entusiasmo» e che l’Alfieri chiama «impulso naturale»: «un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova pace, né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto, e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità o di esser primo fra gli ottimi, o di non essere nulla»[17]. Impulso che si riconosce soprattutto nei poeti i quali non hanno bisogno di circostanze particolari per mettere in atto questa altissima qualità e ne riescono quindi i piú indipendenti e decisi interpreti. «Questa divina arte dello scrivere ella è pure innegabilmente la piú indipendente di tutte»[18]: da quella posizione confusa di eteronomia e di apparente moralismo nasce nella poetica alfieriana proprio un primato della poesia (come diversamente avverrà poi nel Foscolo) che rimane sempre tenacemente e coerentemente legato a un primato dell’individuo poeta nel suo sublime sentire, nella sua identificazione di fare e di poetare che reciprocamente si arricchiscono con evidente finale vantaggio della poesia.

Ecco come nella poetica alfieriana l’ispirazione si pone romanticamente al centro ed ogni precettistica classicista decade a pura strumentalità e lo stesso buon gusto cui il Bettinelli non poteva rinunziare come qualità diversa dall’entusiasmo, o viene immedesimato con l’ispirazione o discende a grado inferiore di letteratura e perfino di letteratura cortigiana.

Donde deriva il metodo stilistico e costruttivo della tragedia e delle rime, il gusto di un “trovare” duro, poco armonico, il bisogno di atteggiare i personaggi in azioni poco svolte e catastrofiche e perfino di quel tono di estrema tensione tragica cosí lontano dal buon gusto settecentesco. La sua poetica consiste cosí nel bisogno dell’impulso naturale di esprimere gli affetti che lo agitano e di esprimerli con una efficacia che del fare classico avesse la radicale magnanimità, la pregnante forza vitale. Cosí la stessa adozione della tragedia come mezzo con cui piú coerentemente e potentemente esprimersi non fu per l’Alfieri solo un tributo ad una moda del tempo, ma la conseguenza naturale di quei princípi che sono insiti nella sua poetica romantica, quale si presenta attraverso la concezione del poeta eroe, il cui slancio vitale in quanto agonistico, in quanto bisognoso di un limite contro cui lottare, da cui liberarsi, postula necessariamente una impostazione tragica.

Piú che presenza di precisi modelli fu la struttura stessa della tragedia, col suo precipitare verso una catastrofe, non verso una pacificazione idillica, che dové impressionarlo e portarlo a fare della sua poetica una poetica di tragedia, di lirica che si esprime in termini di tragedia. E se non vi è soprattutto il gusto storico, che giustificherà tanto teatro romantico (la storia è per lui un solenne spunto di mito magnanimo), vi è nel suo amore per la tragedia quel gusto individualizzante dei romantici che pare cogliere uno dei suoi massimi frutti in organismi poetici, in cui la prepotente personalità del poeta vive nel personaggio una vita di lirica in movimento di lotta.

Ogni astrazione illuministica (le fredde figurazioni voltairiane di cui tanto rideva il Baretti nel suo Discorso) scompare e cosí ogni freddo simbolo, ogni gusto pittoresco esteriore − come quell’idea di limite che l’Alfieri sentiva avversaria − si personalizza nel tiranno e si svolge secondo una intuizione di personalità, in una concretezza di figura che, con una complessità sentimentale ignota al lucido tono settecentesco, trasporta il suo stesso vigore in un piú grandioso urto con una superiore dominazione terribile, con una angoscia che non riesce a spezzare, come avviene nelle maggiori tragedie alfieriane.

Si dirà che però l’Alfieri fu un tenacissimo fedele dei classici e che il suo classicismo è fuori questione. Si badi invece al fatto che, ben piú in là delle solite conciliazioni di sentimenti romantici e di forma classica (ingenue nel loro prospettarsi diviso, ma spesso simbolo di effettivi impasti poetici della fine del Settecento), l’Alfieri volle prendere la tragedia nella sua forma regolare e nella lingua il piú possibile pura, per il suo bisogno di organicità, di concretezza non arbitraria, di tradizionalismo, piú che letterario, nazionale, cioè per ragioni fondamentalmente romantiche e per il fatto che il suo mondo di eccezione doveva costruirsi in una potente struttura, in una completa adeguazione a un mondo di virtú animose e gagliarde che egli vedeva con gli occhi dei romantici, assetati di sublimità e di grandezza. Classicismo che ben s’inquadra, anche se con una appartata originalità, nelle linee del grande romanticismo italiano rivolte al mondo classico non come mondo di eleganza, ma di perfetta umanità, a cui guardarono del resto con occhi nostalgici anche i grandi romantici europei, Goethe, Hölderlin, Keats, Shelley.

Se noi dovessimo poi esaminare, fuori del nostro accertamento di poetica, ai fini della cultura letteraria del preromanticismo, l’atteggiamento alfieriano dentro il concreto costruire del poeta, noi osserveremmo anzitutto come la stessa concezione della tragedia sia presentata, piú che in un giuoco di personaggi ugualmente illuminati, piú che in una ricerca spietata e svolta, come la posizione forte di un personaggio, di una passione fondamentale che crea tutto il movimento che lo circonda o con un violento riverbero delle sue qualità o per contrasto, per urto.

Perciò non ci meravigliamo di quel silenzio allibito che circonda gli eroi alfieriani (si pensi al discorsivo e all’ornamentale settecentesco delle tragedie di Voltaire), di quello sfondo neutro e cupo, di quella solitudine che nasce da spazi e tempi infiniti, quasi dal coagularsi non pittoresco di quei paesaggi desertici e tempestosi che l’Alfieri creò nella sua Vita. Come la lingua poetica dell’Alfieri nella sua estrema volontà di durezza non fa che riflettere, nella maniera piú dura, questa poetica antiarcadica e antilluministica, di posizione forte sia nella sintesi, sia nella misura musicale del verso («Io disperatamente amo, ed indarno», Mirra, At. V, sc. 2, v. 139), nel gusto non mimetico e realistico, ma di concisione fulminante nei versi spezzati, nello strappo di inizi gridati senza dolcezza.

Non che si voglia “alfierizzare” l’Alfieri e ridurlo ad un frenetico gesticolare, come avverrebbe se non si accertasse il fondo di meditazione, di malinconia, di sincero amore letterario che meglio risultano in certi passi della Vita, in vari sonetti, in molte lettere; ma proprio precisando il significato della sua poetica, la tensione che in essa si accorda con la tempesta spirituale balenante sul cielo europeo, ci pare di poter meglio chiarire anche il valore della poesia alfieriana. Come un disegno anche sommario della poetica alfieriana mostra il limite delle altre esperienze preromantiche e la diversa funzione poetica di esigenze, a volta a volta affiorate ed immerse in sintesi ancora settecentesche, in un impegno nuclearmente nuovo.

L’idea del genio, del sublime, dell’entusiasmo, la prevalenza del sentimento, il gusto delle generose illusioni e d’altra parte il ripudio della grazia arcadica e della stilizzazione illuministica, il nuovo senso della malinconia, dell’orrore, come natura stessa dell’ispirazione, l’affermazione di un costruire piú a nuclei sentimentali che a levigate trasparenze lineari, vengono a incontrarsi nella poetica alfieriana con una intensità che li presuppone storicamente, ma li unifica ed invera. La cadenza cesarottiana e, attraverso quella, le suggestioni del preromanticismo europeo, l’amore del concreto e il gusto violento della lingua barettiana son ben presenti, pur nella originalissima singolarità alfieriana, al suo gusto, al formarsi della sua letteratura. Se ciò non toglie nulla alla intensità del poeta e di una visione storica che è inevitabilmente sempre a parte subiecti, non può però essere negato come legame essenziale fra la poetica dell’Alfieri e il complesso mondo preromantico in cui sorge decisiva, ma non arbitraria, la sua rivolta poetica.

La sua parola cosí diversa, nel suo stesso posarsi, da quella pariniana, mentre ci mostra la sua novità essenziale, ci indica il cammino che lo storico può percorrere nella conoscenza del periodo che dall’illuminismo giunge agli inizi del romanticismo in Italia.


1 In tal senso l’Alfieri avrebbe dovuto avere una grande importanza nel saggio di Václav Černy: Essai sur le titanisme dans la poésie romantique Occidentale entre 1815 et 1860, Prague, Aux editions Orbis, 1935. Ma sui limiti di questo libro si veda la mia recensione in «Leonardo», VIII (1937), pp. 238-241.

2 Dal Croce nel celebre saggio del ’17 in poi (e si cfr. a proposito per una ripresa diretta A. Gerbi, La politica del ’700. Storia di un’idea, Bari, Laterza, 1928, e per una precisazione piú complessa il saggio di L. Vincenti, Alfieri e lo “Sturm und Drang” e altri saggi di letteratura italiana e tedesca, Firenze, Olshki, 1966.

3 Lettera a Teresa Regoli Mocenni del 10 dicembre 1796; Epistolario cit., II, pp.197-198 (il corsivo è nostro).

4 Epistolario cit., I, p. 323 (il corsivo è nostro).

5 Ivi, p. 206.

6 Son. 135, vv. 5-7; Rime cit., p. 116.

7 Del Principe e delle lettere, Lib. II, cap. VII; Scritti politici e morali, I cit., p. 170.

8 Vv. 1-7; Rime cit., p. 16.

9 E importa relativamente ritrovare le fonti illuministiche delle sue idee politiche, dato che ciò che nell’Alfieri conta è quello spirito estremistico, ideale di natura schiettamente preromantica.

10 Son. 281, v. 6; Rime cit., p. 229.

11 Sonetto introduttivo a Del Principe e delle lettere.

12 Son. 281, v. 9; Rime cit., p. 229.

13 Le nota di nuovo il Croce nel saggio già citato nella «Critica» del 20 novembre 1942.

14 Scritti politici e morali, I cit., pp. 120-121.

15 Ivi, p. 123.

16 Si noti la nuova valutazione romantica dei santi medievali al di là della loro particolare pietà e nel loro vigore geniale: «lo stessissimo sovrano irresistibile impulso che debbono avere i veri letterati» (ivi, p. 211).

17 Ivi, p. 225.

18 Ivi, p. 226.